Aristotele, Metafisica, A, 2

La meraviglia filosofica

Gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare, poiché dapprincipio essi stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto, e in un secondo momento, a poco a poco, procedendo in questo stesso modo, si trovarono di fronte a maggiori difficoltà, quali le affezioni della luna e del sole e delle stelle e l'origine dell'universo. Chi è nell'incertezza e nella meraviglia crede di essere nell'ignoranza (ecco perché anche chi ha propensione per le leggende è, in un certo qual modo, filosofo, giacché il mito è un insieme di cose meravigliose); e, quindi, se è vero che gli uomini hanno cominciato a filosofare per affrancarsi dall'ignoranza è evidente che cercavano di conoscere al solo scopo di sapere e non per qualche bisogno pratico. Quanto è accaduto lo attesta: infatti, allorché era già disponibile tutto ciò che occorreva per vivere e, perfino, per raggiungere comodità e benessere, gli uomini cominciarono a ricercare questo genere di conoscenza. È, dunque, evidente che la ricerchiamo senza avere scopi estranei, ma, come diciamo libero un uomo che vive per se stesso e non è asservito ad altri, così consideriamo libera questa scienza, tra tutte: solo essa, infatti, è per se stessa

Aristotele, Metafisica, I, 983b7-987a28

La maggior parte di coloro che primi filosofarono pensarono che principi di tutte le cose fossero solo quelli materiali. Infatti essi affermano che ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento ed è principio degli esseri, in quanto è una realtà che permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni. E, per questa ragione, essi credono che nulla si generi e che nulla si distrugga, dal momento che una tale realtà si conserva sempre. E come non diciamo che Socrate si genera in senso assoluto quando diviene bello o musico, né diciamo che perisce quando perde questi modi di essere, per il fatto che il sostrato-ossia Socrate stesso-continua ad esistere, cosí dobbiamo dire che non si corrompe, in senso assoluto, nessuna delle altre cose: infatti deve esserci qualche realtà naturale (o una sola o piú di una) dalla quale derivano tutte le altre cose, mentre essa continua ad esistere immutata.
Tuttavia, questi filosofi non sono tutti d'accordo circa il numero e la specie di un tale principio. Talete, iniziatore di questo tipo di filosofia, dice che quel principio è l'acqua (per questo afferma anche che la terra galleggia sull'acqua), desumendo indubbiamente questa sua convinzione dalla costatazìone che il nutrimento di tutte le cose è umido, e che perfino il caldo si genera dall'umido e vive nell'umido. Ora, ciò da cui tutte le cose si generano è, appunto, il principio di tutto. Egli desunse dunque questa convinzione da questo fatto e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno una natura umida e l'acqua è il principio della natura delle cose umide.
Ci sono, poi, alcuni i quali credono che anche gli antichissimi che per primi hanno trattato degli Dei, molto prima della presente generazione, abbiano avuto questa stessa concezione della realtà naturale. Infatti, posero Oceano e Teti come autori della generazione delle cose, e dissero che ciò su cui gli Dei giurano è l'acqua, la quale da essi vien chiamata Stige. Infatti, ciò che è piú antico è anche ciò che è piú degno di rispetto, e ciò su cui si giura è, appunto, ciò che è piú degno di rispetto. Ma, che questa concezione della realtà naturale sia stata cosí originaria e cosí antica, non risulta affatto in modo chiaro; al contrario, si afferma che Talete per primo abbia professato questa dottrina intorno alla causa prima (ché nessuno potrebbe pensare di mettere Ippone con costoro, a causa dell'inconsistenza del suo pensiero).
Anassimene, invece, e Diogene considerarono come originaria, piú dell'acqua, l'aria e, fra i corpi semplici, la considerarono come principio per eccellenza, mentre Ippaso di Metaponto ed Eraclito di Efeso considerarono come principio il fuoco.
Invece Empedocle pose come principi i quattro corpi semplici, aggiungendo ai tre sopra menzionati anche un quarto, cioè la terra. Essi, infatti, restano sempre ímmutati e non sono soggetti a divenire se non per aumento o diminuzione di quantità, quando si congiungono in una unità o si sciolgono da essa.
Anassagora di Clazomene, che per età viene prima di Empedocle ma è posteriore per le opere, afferma che i principi sono infiniti: infatti egli dice che pressoché tutte le omeomerie [= semi di tutte le cose] si generano e si corrompono unicamente in quanto si riuniscono e si disgiungono cosí come avviene per l'acqua o per il fuoco, mentre in altro modo non sí generano né si corrompono, ma permangono eterne.
In base a questi ragionamenti, si potrebbe credere che ci sia una causa unica: quella che dicíamo causa materiale. Ma, mentre questi pensatori procedevano in questo modo, la realtà stessa tracciò loro la via e li costrinse a ricercare ulteriormente. Infatti, ammesso anche che ogni processo di generazione e di corruzione derivi da un unico elemento materiale, o anche da molti elementi materiali, perché mai esso ha luogo o quale ne è la causa? Infatti, non è certo il sostrato che fa mutare se stesso. Portíamo un esempio: né il legno né il bronzo, singolarmente presi, sono causa del proprio mutare; il legno non fa il letto né il bronzo fa la statua, ma causa del loro mutamento è qualcos'altro. Ora, ricercare questo significa, appunto, ricercare l'altro principio, ossia, come noi diremmo, il principio del movimento.
Coloro, dunque, che, fin dai primi inizi, intrapresero questo tipo di ricerca e sostennero che uno solo è il sostrato, non si resero conto di questa difficoltà. Anzi, alcuni di coloro che affermano questa unicità del sostrato, quasi sopraffatti dalla difficoltà di questa ricerca del principio del movimento, affermano che questo sostrato è uno e immobile e che è immobile anche tutta la natura, non solo nel senso che non sí genera né si corrompe (questa è, infatti, una convinzione antica e da tutti condivisa), ma anche nel senso che è immobile rispetto ad ogni altro genere di mutamento (e questa è la loro caratteristica peculiare). Dunque, nessuno di coloro che affermarono che il tutto è una unità riuscí a scoprire una causa di questo tipo, tranne, forse, Parmenide […].
Coloro che ammettono piú principi possono risolvere meglio la questione: cosí, per esempio, coloro che ammettono coine principi caldo e freddo o fuoco e terra; costoro, infatti, si servono del fuoco come se fosse dotato di natura motrice, e, invece, si servono dell'acqua e della terra e degli altri elementi di questo tipo, come se fossero dotati della natura contraria.
Dopo questi pensatori e dopo la scoperta di questi principi, i quali non sono sufficienti a produrre la natura e gli esseri, i filosofi, nuovamente costretti dalla verità stessa, come già abbiamo detto, si posero alla ricerca di un principio ulteriore. Infatti, del fatto che alcuni degli esseri siano belli o buoni e che altri lo díventino, non può indubbiamente essere causa né il fuoco, né la terra né alcun altro di questi elementi, e non è neppure possibile che quei filosofi lo abbiano pensato. D'altra parte, non era cosa conveniente rimettere tutto questo al caso e alla sorte.
Perciò, colui che disse che, cosí come negli animali, anche nella natura c'è una intelligenza che è causa dell'ordine e della armonica distribuzione di ogni cosa, sembrò il solo filosofo assennato, e, al suo paragone, i predecessori sembrarono gente che parla alla ventura. Ora, sappiamo con certezza che Anassagora fece questi ragionamenti; ma si tramanda che per primo abbia parlato di questo Ermotimo di Clazomene. Comunque, coloro che hanno ragionato in questo modo, hanno posto la causa del bene e del bello come principio degli esseri, e hanno considerato questo tipo di causa come principio da cui deriva agli esseri il movimento.
Tuttavia si potrebbe pensare che sia stato Esiodo il primo che ricercò una causa di questo genere, o chiunque altro pose l'amore e il desiderio come principio degli esseri, cosí come fece, per esempio, Parmenide. Costui, infatti, ricostruendo l'origine dell'universo dice: "Primo fra tutti gli dei (la Dea) produsse l'Amore"; mentre Esiodo dice: " prima di ogni cosa lu il Caos, e dopo fu la terra dall'ampio seno e l'Amore che risplende fra tutti gli immortali": come se riconoscessero, e l'uno e l'altro, che deve esistere negli esseri una causa che muove e riunisce le cose. A quale di questi pensatori spetti la priorità, ci sia concesso di giudicare piú avanti.
Ora, poiché appariva chiaro che, nella natura, vi sono anche cose contrarie a quelle buone, e che ci sono non solo ordine e bellezza, ma anche disordine e bruttezza e che ci sono piú mali che beni e piú cose brutte che belle, cosí ci fu un altro pensatore che introdusse Amicizia e Discordia, causa, ciascuna, rispettivamente, di questi contrari. Infatti, se si segue Empedocle, intendendolo secondo la logica del suo pensiero piú che non secondo il suo modo impacciato di esprimersi, si troverà che l'Amicizia è causa dei beni, mentre la Discordia è causa dei malí. Cosicché, se si affermasse che, in certo modo, Empedocle ha detto ? anzi, che per primo ha detto ? che il bene e il male sono principi, si affermerebbe, probabilmente, cosa giusta, dal momento che la causa di tutti i beni è il bene stesso e la causa di tutti i mali è il male stesso.
Pare, dunque, che costoro, come si è detto, abbiano raggiunto due sole delle (quattro) cause da noi distinte nei libri di Fisica, e precisamente: la causa materiale e la causa del movimento, ma in modo confuso e maldestro, proprio come si comportano nei combattimenti coloro che nor sono esercitati: e come costoro, rigirandosi in tutti i sensi, tirano bei colpi, ma senza essere guidati da conoscenza, cosí neppure quei pensatorí sembrano essere veramente a conoscenza di ciò che affermano; infatti non risulta che essi sí servano di questi loro principi, se non in minima parte.
Lo stesso Anassagora, in effetti, nella costituzione dell'universo si serve dell'[Intelligenza] come di un deus ex machina, e solo quando si trova in difficoltà nel dar ragione della necessità di qualche cosa, trae in scena l'Intelligenza; per il resto, invece, come causa delle cose che avvengono pone tutto, tranne che l'Intelligenza.
Empedocle fa un piú ampio uso delle sue cause che non Anassagora, ma non se ne serve in modo adeguato o non riesce ad essere coerente. Spesso, almeno nel contesto del suo discorso, l'Amicizia separa e la Discordia riunisce. Infatti, quando il tutto si dissolve negli elementi ad opera della Discordia, il fuoco si riunisce formando una unità, e cosí ciascuno degli altri elementi. Quando, invece, ad opera dell'Amicizía gli elementi di nuovo sí ricongiungono nell'unità (dello sfero), necessariamente le parti di essi di nuovo si separano fra loro.
Empedocle, in ogni modo, fu il primo che, a differenza dei predecessori, introdusse la distinzione di questa causa, non ponendo un unico principio del movimento, ma due principi diversi e, anzi, contrari. Inoltre, egli fu il primo a dire che gli elementi di natura materiale sono quattro di numero (peraltro, egli non si serve di questi come se fossero quattro, ma come se fossero solamente due: da un lato, il fuoco per conto proprio e, dall'altro, gli altri tre ? terra, aria e acqua contrapposti come una unica natura: questo si può rilevare dalla considerazione del suo poema). Tali e tanti sono, dunque, i principi secondo Empedocle, come si è detto.
Leucippo, invece, e il suo seguace Democrito pongono come elementi il pieno e il vuoto, e chiamano l'uno essere e l'altro non?essere; e precisamente chiamano il pieno e il solido essere e il vuoto non?essere; e per questo sostengono che l'essere non ha affatto piú realtà del non?essere, in quanto il pieno non ha piú realtà del vuoto. E pongono questi elementi come cause materiali degli esseri. E, come quei pensatori che considerano come unica la sostanza che funge da sostrato e spiegano la derivazione di tutte le altre cose mediante la modificazione di essa introducendo il raro e il denso come principi di queste modificazioni, cosí, nello stesso modo, Democrito e Leucippo dicono che le differenze (degli elementi) sono le cause di tutte le altre. Essi, inoltre, dicono che tre sono queste differenze: la figura, l'ordine e la posizíone [degli atomi indivisibili in cui gli elementi si scompongono]. L'essere, infatti ? essi precisano ? differisce solamente per proporzione, per contatto e per direzione. La proporzione è la forma, il contatto è l'ordine e la direzione è la posizione. In effetti, A differisce da N per la forma, AN da NA per l'ordine, mentre Z differisce da N per la posizione. Per quanto concerne il movimento, donde esso derivi e come esista negli esseri, anche costoro, analogamente agli altri, hanno sconsideratamente trascurato di indagare.
Circa le due cause in questione, come si è detto, risulta che i precedenti pensatori hanno spinto le loro ricerche fino a questo punto. Contemporanei a questi filosofi, ed anche anteriori a questi, sono i cosiddetti Pitagorici. Essi per primi si applicarono alle matematiche e le fecero progredire, e, nutriti delle medesime, credettero che i principi di queste fossero principi di tutti gli esseri. E, poiché nelle matematiche i numeri sono per loro natura i principi primi, e appunto nei numeri essi ritenevano di vedere, piú che nel fuoco, nella terra e nell'acqua, molte somiglianze con le cose che sono e che sí generano: per esempio ritenevano che una data proprietà dei numeri fosse la giustizia, un'altra, invece, l'anima e l'intelletto, un'altra ancora il momento e il punto giusto, e similmente, in breve, per ciascuna delle altre; e inoltre, poiché vedevano che le note e gli accordi musicali consistevano nei numeri; e, infine, poiché tutte le altre cose, in tutta la realtà, parevano a loro che fossero fatte a immagine dei numeri e che i numeri fossero ciò che è primo in tutta quanta la realtà, pensarono che gli elementi dei numeri fossero elementi di tutte le cose, e che tutto quanto il cielo fosse armonia e numero. E tutte le concordanze che riuscivano a mostrare fra i numeri e gli accordi musicali e i fenomeni e le parti del cielo e l'intero ordinamento dell'universo, essi le raccoglievano e le sistemavano. E se qualche cosa mancava, essi si ingegnavano a introdurla, in modo da rendere la loro trattazione in tutto coerente. Per esempio: siccome il numero dieci sembra essere perfetto e sembra comprendere in sé tutta la realtà dei numeri, essi affermavano che anche i corpi che si muovono nel cielo dovevano essere dieci; ma, dal momento che se ne vedono soltanto nove, allora essi ne introducevano di conseguenza un decimo: l'Antiterra.
Abbiamo trattato questi argomenti in altre opere con maggior accuratezza. Qui vi ritorniamo sopra, al fine di vedere, anche presso questi filosofi, quali sono i principi che essi pongono, e in quale modo questi rientrino nell'ambito delle cause di cui abbiamo detto. Anche costoro sembrano ritenere che il numero sia principio non solo come costitutivo materiale degli esseri, ma anche come costitutívo delle proprietà e degli stati dei medesimi. Essi pongono, poi, come elementi costitutivi del numero il pari e il dispari; di questi, il primo è illimitato, il secondo limítato. L'Uno deriva da entrambi questi elementi, perché è, insieme, e pari e dispari. Dall'Uno, poi, procede il numero; e i numeri, come s'è detto, costituirebbero tutto quanto l'universo. Altri Pitagorici affermarono che i principi sono dieci, distinti in serie (di contrari):


(1) limíte illimite,
(2) dispari pari,
(3) uno ? molteplice,
(4) destro ? sinistro,
(5) maschio ? femmina,
(6) fermo mosso,
(7) retto curvo,
(8) luce tenebra,
(9) buono ? cattivo,
(10) quadrato ? rettangolo.

In questo modo sembra che pensasse anche Alcmeone di Crotone, sia che egli abbia preso tale dottrina dai Pitagorici, sia che questi l'abbiano presa da lui: sta di fatto che Alcrneone fiorí quando Pitagora era vecchio e che professò una dottrina molto simile a quella dei Pitagorici. Egli diceva, infatti, che le molteplici cose umane formano delle coppie di contrari, che egli però raggruppò non come facevano i Pitagorici in modo ben determinato, ma a caso, come ad esempio: bianco?nero, dolce?amaro, buono?cattivo, grande?piccolo. Costui, dunque, fece affermazioni disordinate intorno a tutte le coppie di contrari, mentre i Pitagorici dissero chiaramente quali e quante sono.
Dall'uno e dagli altri si può ricavare questo soltanto: che i contrari sono i principi degli esseri; invece quanti e quali essi siano si ricava solamente dai Pitagorici. Ma neppure dai Pitagoricí questi contrari sono stati analizzati in maniera cosí chiara da poter stabilire in che modo sia possibile ricondurli alle cause di cui abbiamo detto; sembra tuttavia che essi attribuiscano ai loro elementi la funzione di materia: infatti essi dicono che la sostanza è composta e costituita da questi elementi, come parti immanenti ad essa.
Da queste cose che si sono dette si può sufficientemente comprendere quale sia il pensiero degli antichi che ammettevano una pluralità di elementi costitutivi della natura.
Ci sono poi altri filosofi i quali sostennero che l'universo è una realtà unica, ma non parlarono tutti allo stesso modo, né per quanto riguarda l'esattezza della trattazione, né per quanto riguarda la determinazione di questa realtà. Una discussione intorno a questi filosofi esula dall'esame delle cause che stiamo svolgendo ora: infatti, essi non procedono come alcuni filosofi naturalisti, i quali, pur ponendo l'essere come uno, fanno derivare le cose dall'uno come da materia, ma procedono in modo tutto diverso. 1 naturalisti, infatti, nello spiegare la generazione dell'universo, attribuiscono all'Uno un movimento; questi filosofi, invece, affermano che l'Uno è immobile. Cionondimeno, questo che diremo qui di seguito ha attinenza con la ricerca che stiamo svolgendo. Parmenide sembra aver inteso l'uno secondo la forma. Melisso, invece, secondo la materia (e perciò il primo sostiene che esso è limitato, l'altro, invece, che è illimitato). Senofane, che ancor prima di questi ha affermato l'unità del tutto (si dice, infatti, che Parmenide sia stato suo discepolo), non dà nessun chiarimento e non sembra che abbia colto la natura né dell'una né dell'altra di queste cause, ma, considerando l'uníverso intero, afferma che l'uno è Dio.
Per quanto riguarda la ricerca che stiamo svolgendo, come già si è detto, due di questi filosofi, Senofane e Melisso, si possono lasciare senz'altro da parte, perché alquanto grossolani; Parmenide, invece, sembra ragionare con maggior oculatezza. Poiché egli ritiene che accanto all'essere non ci sia affatto il non?essere, necessariamente deve credere che l'essere sia uno e null'altro (di questo abbiamo discorso in modo piú pprofondito nella Fisica) costretto, per altro, a tener conto dei fenomeni, e supponendo che l'uno sia secondo la ragione mentre il molteplice secondo il senso, egli pure pone due cause e due principi: il caldo e il freddo, vale a dire il fuoco e la terra; e assegna al caldo il rango dell'essere e al freddo il rango del non?essere.
In conclusione, dalle cose dette e dalle dottrine dei sapienti, che abbiamo chiamati in causa nella presente discussione, abbiamo tratto quanto segue. I primi filosofi hanno posto il principio materiale (infatti acqua, fuoco, e simili sono corpi); e alcuni lo hanno posto come unico, altri, invece, come una pluralità di principi materiali; gli uni e gli altri, comunque, lo hanno considerato di natura materiale. Inoltre, alcuni pongono questa causa, ma, oltre questa, pongono anche la causa motrice; e, questa, ulteriormente, secondo alcuni è unica, secondo altri è duplice.
Fino ai filosofi italici (questi, però, esclusi), tutti i filosofi hanno discorso delle cause in modo piuttosto inadeguato. Essi però-come si è detto-, in qualche modo hanno fatto uso di due cause e, alcuni hanno posto la seconda di queste-la causa del movimento-come unica, altri, invece, come duplice. I Pitagorici, invece, affermarono nello stesso modo due principi, ma vi aggiunsero questo che è loro peculiare: essi ritennero che il limitato e l'illimitato e l'uno non fossero attributi di altre realtà (per esempio, fuoco o terra o qualcos'altro) ma che l'illimitato stesso e l'uno fossero la sostanza [= essenza] [= essenza] delle cose delle quali si predicano, e che perciò il numero fosse la sostanza [= essenza] di tutte le cose.
Intorno alle cause, dunque, i Pitagorici si espressero in questo modo. Essi incominciarono anche a parlare dell'essenza e a dare definizioni, ma procedettero in modo troppo rozzo. Infatti definirono in modo superficiale, giacché ritenevano che ciò a cui in primo luogo si addiceva una data definizione, fosse la sostanza [= essenza] delle cose: come se uno credesse che siano la stessa cosa il doppio e il numero due, perché il numero due è ciò di cui in primo luogo il doppio si afferma. Ma non sono certamente la stessa cosa l'essenza del doppio e l'essenza del due; altrimenti, l'uno sarebbe, ad un tempo, molte cose: ed è questa, appunto, la conseguenza in cui cadono.
Questo, dunque, è quanto si può apprendere dai primi filosofi e dai loro successori.

Aristotele, Metafisica, G, 3-4

Il principio di non contraddizione

... il principio più saldo di tutti è quello a proposito del quale è impossibile cadere in errore, giacché esso è necessariamente quello che è il più noto (tutti infatti cadono in errore su quelle cose che non conoscono) e che non è fondato su ipotesi. Difatti un principio che deve necessariamente essere posseduto perché si possa comprendere qualsivoglia delle cose esistendo, non può essere affatto un'ipotesi; e ciò che si deve conoscere qualora si intenda conoscere qualsiasi altra cosa, non può non essere posseduto prima di ogni altra conoscenza. E chiaro, dunque, che solo un siffatto principio è il più saldo di tutti; ma, ciò premesso, accingiamoci a dire quale esso sia. Esso è il seguente: è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e nella medesima relazione (e si considerino già aggiunte tutte le altre determinazioni che si potrebbero aggiungere per ribattere le obiezioni di carattere logico); appunto questo è il più saldo di tutti i princìpi, perché possiede la determinazione che noi abbiamo enunciata. È impossibile, infatti, supporre che la medesima cosa sia e non sia, come certuni credono che, invece, sostenga Eraclito. Può anche capitare, infatti, che uno non sia pienamente convinto di quello che dice; e se non è possibile che attributi contrari appartengano simultaneamente ad una medesima cosa e si considerino aggiunte da noi, anche in riferimento a questa premessa, tutte quelle determinazioni che di solito vanno aggiunte e se l'opinione che è in contraddizione con un'altra opinione è contraria a quest'ultima, risulta allora evidentemente impossibile la medesima persona, nel medesimo tempo, pensi che la medesima cosa sia e non sia, giacché, in tal caso, colui che cadesse in questo errore avrebbe nel medesimo tempo due opinioni contrarie. Ecco perché chiunque intenda produrre una dimostrazione la fonda, in ultima istanza, su questa convinzione, giacché questa è, per sua natura, anche la base su cui poggiano tutti quanti gli altri assiomi.
Certuni, tuttavia, pretendono che si dia dimostrazione anche di questo [del principio di non?contraddizione], ma tale loro pretesa è effetto della loro impreparazione, giacché è segno di impreparazione il non saper riconoscere di quali cose si debba cercare dimostrazione e di quali no. [ ... ]
Tuttavia, anche per quanto concerne tale principio, l'impossibilità di dimostrare che una cosa sia e non sia può essere provata mediante confutazione, purché il nostro interlocutore intenda dare alle sue parole un certo significato; ma se egli parla senza costrutto, è ridicolo mettersi a cercare un'argomentazione contro colui che non ha niente da argomentare, almeno finché non ha niente da argomentare: difatti un tale uomo, in quanto si trova in tale stato, somiglia ormai ad una pianta. Il punto di partenza per tutte queste discussioni non sta nel pretendere che il nostro interlocutore asserisca che una cosa è o non è (giacché, forse, si potrebbe pensare che ciò non sia stato altro se non una petizione di principio), bensì nel pretendere che egli dica a se stesso e ad altri qualcosa che abbia almeno un significato: questo, infatti, è indispensabile, se veramente egli vuol " dire" qualche cosa. Nel caso contrario una tale persona non potrebbe ragionare né con se stesso né con gli altri. Se, però, ci viene concesso questo, allora vi può essere dimostrazione, giacché vi sarà ormai qualcosa di definito. Ma il responsabile della petizione di principio non è chi dà la dimostrazione, bensì colui che la subisce, giacché costui, proprio mentre vuole demolire un ragionamento, viene a subirlo.